1. Cenni storici

Anche se la storia dell’abbazia di Rodengo affonda le sue radici nel lontano Medioevo, gli scavi archeologici condotti nell’ultimo ventennio del secolo scorso hanno dimostrato che la zona su cui sorse il complesso monastico venne frequentata già dal II sec. a.C. Nello specifico, nella parte orientale del sagrato e nella zona del campo sportivo sono state rinvenute parti di una villa romana del I secolo, tra cui resti di intonaci dipinti, mosaici e l’impianto di riscaldamento; probabilmente, tra il IV e il V sec., a causa della crisi dell’Impero – economica e sociale – la villa subì un progressivo degrado anche se non fu mai abbandonata, infatti risalgono all’Alto Medioevo alcuni resti in legno di ulteriori insediamenti che costituirono l’abitato fortificato di questa zona.
Successivamente, fondamentale per la fondazione del complesso monastico fu il monachesimo cluniacense, uno dei fenomeni più importanti della storia della Chiesa e del monachesimo occidentali. La riforma cluniacense prese le mosse dall’abbazia di Cluny, fondata in Borgogna (Francia) nel 909 da san Bernone di Gigny, e si diffuse in modo capillare in tutta Europa tra il X e il XII secolo, impregnando ogni territorio coinvolto di un nuovo spirito religioso, uno spirito che contribuì a preparare la rivoluzione della riforma gregoriana (XI secolo). In Lombardia, lo spirito cluniacense si diffuse proprio mentre infuriava la lotta per le investiture, alla fine dell’XI secolo.
La data di fondazione del complesso monastico non è nota e le sue origini non sono ancora del tutto chiare, tuttavia un primo riferimento rilevante potrebbe risalire al 1085, anno in cui il cenobio risultava constructum nel castrum vetus di Rodengo intitolato agli apostoli Pietro e Tommaso e alla Vergine Maria, come si evince da un documento datato 4 aprile 1085, in cui si dà conto di una donazione fatta da Lanfranco de Rodingo e da sua moglie al cenobio, per la salvezza della loro anima. L’intitolazione a San Nicola di Bari subentrò accanto a quella di San Pietro qualche anno dopo e divenne definitiva a partire dalla fine del XII secolo.
Nei decenni successivi, la comunità monastica cluniacense di Rodengo crebbe grazie ad ulteriori donazioni e alle opere di bonifica e di coltivazione delle terre circostanti; tuttavia, i primi segni di decadimento cominciarono a registrarsi tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, a causa della crisi religiosa vissuta dall’ordine monastico francese che stava ormai perdendo il ruolo centrale avuto fino a quel momento.
Gli anni della decadenza proseguirono e il monastero venne utilizzato per usi profani e abbandonato a se stesso, fino al 1446, quando papa Eugenio IV decise di affidare il monastero di Rodengo ai monaci di Monte Oliveto, decretando l’estinzione dei cluniacensi a Rodengo. Il loro arrivo comportò la rinascita della comunità e una profonda ristrutturazione dei suoi ambienti, a partire dal 1478.
I monaci senesi ressero il monastero fino al 1797, anno in cui l’arrivo delle truppe napoleoniche a Brescia portò alla soppressione degli ordini religiosi e gli spazi di San Nicola furono così destinati dal governo repubblicano all’Ospedale delle donne di Brescia. Con l’abbandono dell’abbazia, i suoi ambienti attraversarono con non poche difficoltà il XIX e il XX secolo, segnati dalle guerre e dal degrado, fino all’8 febbraio 1969, quando finalmente i monaci Olivetani poterono farvi ritorno grazie all’intervento del papa bresciano Paolo VI, che sempre aveva avuto a cuore questo luogo.
Come segno di riconoscenza, nel febbraio del 2019, l’abbazia ha assunto una nuova intitolazione: Santi Nicola e Paolo VI.
Il sagrato, in origine luogo di sepolture, oggi fa da cornice alla facciata della chiesa monastica che, semplice e maestosa, accoglie i fedeli in tutto il suo splendore, specialmente dopo i restauri del 2020.
La facciata oggi visibile è frutto dei rifacimenti olivetani di fine Quattrocento; la finestra polilobata appartiene invece ad un intervento del XVII-XVIII secolo; sopra, infine, è visibile la monofora originale di epoca gotica, murata in epoca ottocentesca e riaperta con il recente restauro.
Il protiro accoglie il portale in pietra simona, decorato da paraste scanalate con capitelli a fiori stilizzati, da un architrave decorato con i simboli del sole e della luna e motivi vegetali a girali che legano tra loro tre tondi con le figure di Cristo, al centro; San Nicola da Bari, a sinistra; San Benedetto, a destra.
La lunetta accoglie un affresco raffigurante una Madonna col bambino, attribuito da alcuni a Vincenzo Foppa, da altri a Floriano Ferramola. L’affresco fu strappato nel 1878 e trasportato su tela, per poi essere esposto nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, dove ancora oggi si conserva. Prende il suo posto una copia del pittore bresciano ottocentesco Giuliano Volpi.

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2. Chiostro della Porta

Con l’arrivo dei monaci olivetani, a partire dal 1478 presero avvio i lavori di rinnovo dei chiostri e di altri ambienti monastici; il cosiddetto “Chiostro della Porta” o “della Celleraria” fu il primo ad essere ricostruito. Questo era probabilmente l’antico ingresso al monastero ma doveva assolvere anche ad altre funzioni di tipo economico e amministrativo, come suggeriscono le denominazioni. Infatti, alcuni degli ambienti disposti attorno a questo chiostro erano destinati alle dispense, alle cantine e ai granai.
La datazione di questo spazio sembrerebbe confermata dalla presenza di elementi decisamente tardo-gotici, come le basi delle colonne e i capitelli a fogliami.
I quattro capitelli angolari riportano lo stemma di Monte Oliveto, un monte a tre cime accompagnato da due ramoscelli d’ulivo e sormontato da una croce; altri, invece, sono di recupero così come alcuni fusti di colonna. Questo conferma un’usanza tipica del periodo medievale, cioè il riuso di materiali di spoglio da ambienti precedenti; dunque, la struttura è composta da elementi realizzati ex novo e da pezzi di recupero, appartenenti forse ad un chiostro precedente, di fondazione cluniacense.
Grazie alle sue modeste dimensioni e alle sue forme semplici, tra i chiostri questo è forse quello che meglio riesce a creare un’atmosfera di raccoglimento.
Dirigendosi verso il Chiostro grande, nel corridoio sono esposte parti della macchina in legno per l’altare maggiore della chiesa, allestita in occasione della celebrazione del Sacro Triduo, ovvero la commemorazione dei defunti che si tiene nei tre giorni che precedono la Quaresima. La macchina colossale venne probabilmente realizzata tra il Settecento e l’Ottocento e, dopo essere stata abbandonata, fu restaurata e resa nuovamente funzionante nel 1996, anche se il suo allestimento non era mai stato interrotto.

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3. Foresteria

La prima tappa del chiostro cinquecentesco è la sala della Foresteria nuova. Stando alle fonti, anche questo spazio fu coinvolto nella prima fase di rinnovamento da parte degli olivetani e dal 1498 doveva già essere agibile.
Anche senza il supporto di documenti e carte d’archivio, è possibile attribuire il ciclo pittorico della sala al grande pittore bresciano Girolamo Romanino (ca.1484-1559), che se ne occupò probabilmente tra il 1528 e il 1531, sotto il priorato di Innocenzo Manerba.
La decorazione si compone di due grandi affreschi sulla parete meridionale, strappati nel 1864 per mano di Bernardo Gallizioli e ora conservati nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, raffiguranti la Cena in Emmaus e la Cena in casa di Simone il Fariseo (visibili in due copie fotografiche nella sala). Rimangono in loco, sulla parete settentrionale, la rappresentazione di una Dispensa con piatti e vasellame esposti su mensole; l’Incontro di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe e, infine, nella lunetta, una Madonna con Bambino, San Giovanni Battista fanciullo e l’agnello.
Il programma iconografico dell’ambiente è perfettamente in linea con il tema dell’ospitalità connessa alla funzione che aveva la foresteria: da una parte, i due discepoli di Emmaus ospitano Gesù dopo aver camminato con lui e lo riconoscono nel momento in cui spezza il pane; nell’altra Cena una peccatrice ai piedi del Maestro compie un gesto di cortesia nei confronti dell’ospite, gesto che Simone il fariseo non aveva rispettato, interessato più alla fama di Gesù che ai suoi insegnamenti. Infine, Cristo, nel suo incontro al pozzo con la Samaritana, dimostra che anche lui come pellegrino ha bisogno di riposo e di ristoro e, in genere, questo tema iconografico veniva collocato nei pressi di lavabi per l’abluzione delle mani prima di consumare il pasto.
L’artista racconta gli episodi evangelici con uno stile assolutamente personale, caratterizzato da gesti intensi, sguardi espressivi, colori accesi e pennellate rapide e sicure, riuscendo a trasmettere un senso di pace e di accoglienza, così come suggerisce la regola benedettina “Omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur” (“Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo”).
Dall’alto della parete settentrionale, nella lunetta, domina la stanza Maria che, con il suo sguardo amorevole, sorregge un vivace Gesù Bambino, accompagnata da San Giovannino e dall’agnello, simbolo eucaristico.

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4. Chiostro Grande

L’inquadramento cronologico del chiostro cinquecentesco, detto anche Chiostro grande, si presenta più problematico poiché le fonti settecentesche affermano che i lavori erano già stati avviati nel 1478, tuttavia, le sue caratteristiche rinascimentali, assai diverse da quelle del Chiostro della Porta, suggeriscono di ipotizzare che l’impostazione del chiostro fosse già stata concepita nella prima fase olivetana di rinnovamento degli ambienti monastici, ma realizzata in un secondo momento, a partire dalla fine del XV secolo e nel corso del primo Cinquecento.
Il prospetto meridionale è impreziosito da una fascia cromatica di maioliche invetriate di gusto rinascimentale; nel registro superiore del prospetto settentrionale, tra i raccordi degli archi, si intravedono lacerti di affreschi raffiguranti monaci e abati a mezzo busto; a metà del prospetto occidentale, invece, è presente lo stemma degli olivetani. Al centro di questo maestoso chiostro, spicca un’elegante pergola in ferro battuto, restituita al ritorno dei monaci da chi l’aveva recuperata durante gli anni dell’abbandono.
Si affacciano al chiostro alcuni ambienti di servizio come la cucina, la dispensa, il forno.
Degna di nota è sicuramente la cosiddetta Sala del forno (o dei Dodici Apostoli), oggi anche sede dell’Associazione Amici dell’Abbazia di Rodengo, così chiamata perché al suo interno si conserva l’antico forno cinquecentesco per la cottura del pane e di altre pietanze.
Rendono unica questa stanza due affreschi: il primo, sulla parete di fondo tra due finestre, rappresenta l’Albero della vita, datato 1533 e attribuito ad Alessandro Romanino, cugino del più celebre Girolamo Romanino. È raffigurato Cristo in croce, con Maria dolente ai suoi piedi e gli apostoli a mezzo busto tra i rami. In basso si riconoscono a sinistra San Sebastiano, con le frecce, a destra San Rocco che, come da tradizione, è vestito come un pellegrino. Sopra, invece, si notano due uomini che potrebbero essere i committenti. Nella stessa sala, accanto alla porta di ingresso, degno di nota è il meraviglioso lavabo marmoreo dove si conserva un affresco attribuito al pittore Francesco Giugno, raffigurante Mosè salvato dalle acque del Nilo: una scena intensa, caratterizzata da colori vivaci. La scelta di questo episodio tratto dall’Esodo si spiega alla luce del richiamo simbolico all’acqua, per la presenza del lavabo, e al pane, in quanto Mosè è prefigurazione di Cristo, quindi dono eucaristico.
Sul chiostro grande si affacciano anche altri due locali: la Sala di Sansone e la Sala di Giobbe. I cicli decorativi di queste due stanze hanno indotto a pensare che questa fosse originariamente la zona adibita a infermeria per i pellegrini che sostavano presso il monastero, tuttavia le fonti non sono certe e, dal 1771, sono ricordate come stanze dell’appartamento abbaziale.
La stanza di Sansone ha l’apertura verso il chiostro ed è più grande, mentre quella di Giobbe è di dimensioni più modeste, con soffitto in legno ribassato, più calda e più raccolta. I cicli pittorici propongono temi iconografici che, in effetti, si sarebbero potuti sposare bene con la funzione dell’infermeria: da un lato, la storia di Sansone dimostra come la forza possa rapidamente trasformarsi in debolezza; invece, la storia di Giobbe potrebbe incoraggiare alla sopportazione della malattia.
Nella prima stanza, nel riquadro del soffitto, entro finti stucchi e grottesche, è raffigurata la Profezia della nascita di Sansone affiancata da altri due episodi, in cui l’angelo annuncia la nascita di Sansone, prima alla madre e poi a entrambi i genitori. Sulle pareti, sono affrescati altri episodi della vita dell’eroe biblico: sopra il camino, la Vendetta di Sansone ricorda il momento in cui dopo aver catturato trecento volpi, legò alle loro code delle fiaccole accese e le liberò nei campi di grano dei Filistei; nella lunetta sopra, Sansone trasporta verso il monte le porte scardinate della città di Gaza; in altre due lunette, Sansone miracolosamente sciolto dalle funi e Sansone uccide mille uomini con una mascella d’asino. In un’altra lunetta, invece, è affrescato un putto entro una conchiglia con uno scorcio perfetto.
Nella saletta adiacente sono affrescate storie tratte dal libro di Giobbe, raffiguranti il patriarca biblico in alcuni momenti salienti della sua vita: Giobbe è informato dal messo sulle calamità che hanno colpito beni e affetti; Giobbe medita sulle macerie della casa abbattuta; Giobbe sul mucchio di cenere mentre si gratta con il coccio; Giobbe, abbandonato dalla moglie, riceve la visita di tre amici; Giobbe con la sua nuova famiglia. Sopra la porta, spicca l’Arca sepolcrale di Giobbe che reca una lunga iscrizione latina.
I cicli decorativi di queste due sale possono essere frutto del manierismo bresciano di inizio ‘600, attribuibili all’equipe di artisti formata da Francesco Giugno, Tommaso Sandrini e Stefano Viviani.
Frutto di questa collaborazione sono anche le decorazioni di altre due salette collocate al primo piano, sopra la foresteria, realizzate intorno al 1610: Saletta di Tobia e Saletta di Jefte.

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5. Antirefettorio e Refettorio

L’antirefettorio del complesso monastico di Rodengo è sicuramente uno dei più preziosi gioielli artistici di tutta la Franciacorta. Il ciclo pittorico venne realizzato per mano del pittore Lattanzio Gambara (ca. 1530-1573) nel 1561, quando l’artista aveva ormai già raggiunto una certa fama grazie ai suoi interventi in città molto apprezzati, tanto che lo stesso Giorgio Vasari lo ricordò come “il miglior pittore che sia in Brescia”.
La chiave di lettura degli affreschi è il tema della Salvezza letto alla luce di alcune scene tratte dal libro dell’Apocalisse e dall’Antico Testamento che ricordano che la Salvezza è un dono che può essere liberamente accolto e dunque vissuto attraverso la fede, oppure rifiutato.
La lettura del ciclo decorativo può iniziare dal soffitto dove viene illustrata la visione di Giovanni nel VII capitolo dell’Apocalisse: quattro angeli presso i quattro angoli della terra tengono a bada con le spade i quattro venti distruttori, rappresentati da visi con le guance gonfie, affinché non soffino sulla terra e sul mare. Un quinto angelo porta il sigillo di Dio da imprimere sulla fronte dei servi che formano una folta schiera di uomini disposti lungo i lati, colti in diversi atteggiamenti. Al centro, domina la scena Dio Padre in trono che accoglie l’Agnello; attorno alla sua figura splendente, tra le nuvole, si intravedono dodici anziani con un ramo di palma rappresentanti le dodici tribù di Israele.
Fanno da cornice alla scena centrale, dieci episodi dell’Apocalisse: partendo dal riquadro sopra la porta di ingresso al refettorio, La consegna delle sette trombe (Ap 8, 1-5); Il suono della tromba del primo angelo (Ap 8,7); Il giudizio della grande prostituta (Ap 17, 1-5); L’apertura dei quattro sigilli (Ap 6, 1-8); Il suono della tromba del quinto angelo (Ap 9, 1-5); sopra l’ingresso allo scalone di accesso al piano superiore si trova L’Agnello sul monte Sion e i redenti (Ap 14, 1-10); Il suono della tromba del secondo angelo (Ap 8,9); I due testimoni (Ap 11, 7-12); La donna e il dragone (Ap 12, 1-9); Il suono della tromba del quarto angelo (Ap 8, 12-13).
Al di sotto degli episodi dell’Apocalisse, si trovano alcune scene tratte dall’Antico Testamento. Dalla porta di ingresso al refettorio, Il banchetto di Baldassar; Mosè nel paese di Madian; Rachele con le pecore di Labano; Davide risparmia Saul; Abramo visitato dagli angeli a Mamre; La raccolta della manna; Mosè fa zampillare l’acqua dalla roccia; L’angelo del Signore porta in salvo le figlie di Lot; Il viaggio di Tobia guidato dall’angelo Raffaele; Daniele nella fossa dei leoni; Ester al cospetto di Assuero; Mosè impone la purificazione delle vesti; Mosè riceve le tavole della Legge sul monte Sinai.
La sequenza degli episodi doveva apparire ai monaci come un fermo monito a perseverare nella fede nonostante la Chiesa apparisse indebolita dalle forze dell’eresia, specialmente in un momento così delicato come quello della storia cinquecentesca, segnata dalle guerre di religione in seguito alla diffusione della Riforma protestante. Ogni episodio, infatti, rimanda alla fedeltà di Dio che tiene saldamente in mano le fila della storia e realizza la salvezza nonostante l’uomo spesso si riveli infedele.
Lattanzio Gambara riuscì a narrare questo complesso programma iconografico con uno stile personale, aggiornato sul manierismo dell’epoca, capace di dar vita a scorci arditi e di rendere l’idea del movimento turbinoso delle figure, grazie all’uso di colori luminosi e al suo metodo di lavoro abbastanza rapido.
Ai lati della porta che conduce nel refettorio, sono presenti due dipinti molto raffinati attribuiti da una fonte settecentesca al pittore Francesco Giugno: due putti ignudi si stagliano contro un paesaggio caratterizzato da colline verdeggianti e villaggi avvolti nella luce rossa del tramonto. Entrambi reggono un cartiglio che accompagna il visitatore con un monito che invita a riflettere: vescere tuo pane laetus et hilari mente bibe tuum vinum postquam accepta sunt opera tua (Mangia lieto il tuo pane e bevi gioiosamente il tuo vino, dal momento che le tue opere sono state ben accette); qui et mentis puritatem amat simul et corporibus huic familiaris est deus (Colui che insieme alla purezza del corpo ha il gusto della purezza della mente, a costui Dio è familiare). È probabile che al di sotto degli angioletti fossero presenti dei lavabi, oggi perduti.
Il refettorio grande, anche detto Salone monumentale, venne edificato sulla pianta di quello quattrocentesco e, verso la metà del ‘500, con i lavori del cantiere ancora in corso, fu sopraelevato allo scopo di creare un ambiente unico, assumendo così l’aspetto imponente che conserva ancora oggi.
Della decorazione pittorica quattrocentesca si conserva intatta solo la Crocifissione che occupa la parete di fondo e che domina il salone: il limite del vecchio soffitto e i segni degli interventi strutturali del cantiere cinquecentesco sono evidenti nella zona superiore dell’affresco. Fortunatamente, questo venne risparmiato dal nuovo ciclo pittorico seicentesco, anche se nascosto sotto una grande tela dipinta nel 1608 da Grazio Cossali, raffigurante le Nozze di Cana e che oggi si può ammirare nella chiesa abbaziale.
I restauri condotti nel 1969 hanno restituito luminosità all’affresco, da attribuire ad un artista bresciano vicino alla scuola di Floriano Ferramola; questo raffigura la scena della Crocifissione stagliata su uno sfondo di gusto quattrocentesco, caratterizzato da una fine descrizione della cittadina, dei pendii collinari e dei corsi d’acqua. In primo piano sono presenti le figure dolenti della Madonna, di Maria Maddalena ai piedi della croce e di San Giovanni, mentre sulla destra alcuni soldati si stanno allontanando. Sotto, l’invito al silentium è un monito sulla predisposizione d’animo da mantenere nel corso dei pasti e nel momento della riflessione sul dramma della Croce.
Il resto del ciclo decorativo venne realizzato tra il 1608 e il 1610, dopo la chiusura del cantiere di ristrutturazione, dagli artisti già citati Francesco Giugno che si occupò delle figure e Tommaso Sandrini che si occupò delle quadrature, ovvero le finte strutture architettoniche dipinte. Stando alle fonti, sopra la porta del refettorio in controfacciata, era collocata una tela con il Banchetto di Assuero dello stesso Francesco Giugno, ceduta al Comune di Brescia nel corso dell’Ottocento e oggi visibile alla Pinacoteca Tosio Martinengo.
La decorazione ad affresco del refettorio copre tutta la superficie della volta e delle pareti ed è organizzata in modo sapiente e originale dal Sandrini che sfondò letteralmente la parete con le sue cornici dipinte e le sue finte balaustre, secondo il gusto tipico del Barocco. Il soffitto è diviso in tre sezioni che accolgono figure femminili, allegorie di Virtù, intervallate da due scene a monocromo raffiguranti banchetti biblici. Di gusto barocco, lungo il cornicione, sono anche alcune figure che si affacciano dai meravigliosi balconi a trompe-l’œil rifacendosi alle opere del più noto pittore Paolo Veronese. Lungo le pareti trovano posto, entro nicchie dipinte, grandi figure allegoriche a monocromo, accompagnate sulle lesene da piccole scene figurate tratte dall’Emblemata di Andrea Alciati (1531) e dall’Iconologia di Cesare Ripa (1593). Tra queste grandi figure allegoriche, sotto le finestre, sono raffigurate otto fasce a monocromo marrone raffiguranti altre scene bibliche legate al tema del convitto, come La moltiplicazione dei pani e dei pesci o La Cena in Emmaus.

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6. Chiostro della cisterna
e Aula capitolare

Il terzo chiostro è sicuramente uno degli ambienti più affascinanti di tutto il complesso monastico: si tratta di un chiostro olivetano sorto su uno precedente di fondazione cluniacense, di dimensioni più modeste, e rimaneggiato nella seconda metà del ‘500 nelle forme che conserva ancora oggi. I suoi prospetti sono gli unici di tutto il complesso ad essere caratterizzati dal meraviglioso sistema a “serliane”, particolari elementi architettonici che prevedono un’apertura centrale ad arco e due aperture laterali architravate, molto diffusi a partire dal Rinascimento. Questo era il chiostro principale, con il pozzo al centro e le meridiane dipinte nel 1648, utili per scandire le giornate dei monaci. Osservando con attenzione il fregio che corre sopra le serliane lungo i profili del chiostro, si possono ancora ammirare tracce di sinopie raffiguranti elementi vegetali, opere di Lattanzio Gambara.
All’ingresso dell’antirefettorio, sulla parete orientale, si può ammirare un’elaborata prospettiva architettonica dipinta nel 1720 dal quadraturista Giuseppe Castellini.
Su questo chiostro si affaccia l’Aula capitolare, oggi utilizzata come Cappella. Un tempo questo era il luogo in cui la comunità monastica si riuniva per prendere decisioni relative alla vita spirituale e materiale all’interno del monastero. L’ingresso è accompagnato ai lati da due bifore composte da colonnette neomedievali che fungono da pilastro centrale, frutto degli interventi di restauro di Antonio Tagliaferri, nel corso del XIX secolo. Sul pavimento spiccano due pietre tombali in marmo: ci ricordano che un tempo qui venivano seppelliti i monaci defunti. Spicca, infine, sulla parete di fondo un affresco di Pietro Marone con Cristo risorto, del 1599.

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7. Sagrestia e Coro

Sul chiostro della cisterna si affaccia anche la sacrestia, scrigno che contiene opere artistiche pregiate di intarsio e di affresco.
Per varcare la soglia di questa stanza si supera una porta intarsiata dal magister intagliatore Cristoforo Rocchi dopo il 1480, su commissione del priore Vincenzo da Milano. La porta – 236 x 168 cm – è composta da otto registri orizzontali divisi da quattro formelle intarsiate – 14 x 14 cm – iscritte entro una duplice cornice. Gli stipiti in pietra che ricoprono in parte gli angoli della superficie lignea sono interventi successivi. Sopra la porta campeggia un affresco neomedievale raffigurante l’arcangelo Michele nello scontro con il male, impersonato da un diavolo.
L’interno si presenta come uno spazio ampio e luminoso, che ospita una serie di armadi intagliati.
Tra le due finestre si colloca un affresco che funge da pala d’altare con la Madonna col Bambino fra i santi Benedetto e Nicola da Bari, appartenente al tardo manierismo bresciano, forse opera di Stefano Viviani. Nel corso del ‘700, il milanese Giovan Battista Sassi aggiunse alla composizione alcuni elementi barocchi come le teste degli angioletti e i tendaggi azzurri.
Sono della prima metà del Seicento gli affreschi della volta, attribuiti al cremasco Gian Giacomo Barbelli; nel medaglione centrale è raffigurata La Santissima Trinità adorata da san Benedetto, da san Bernardo Tolomei, da santa Scolastica e da santa Francesca Romana, ed è contornato da otto medaglie a monocromo raffiguranti le Virtù Fede, Fortezza, Speranza, Carità, Temperanza, Prudenza, Ubbidienza, Giustizia. Altri medaglioni, invece, ospitano quattro Padri della Chiesa – Ambrogio, Agostino, Girolamo, Gregorio Magno – e i quattro Evangelisti – Matteo, Marco, Luca, Giovanni – con i rispettivi simboli.
Nelle undici lunette il Barbelli dipinse alcuni episodi della vita di san Benedetto, tratti dai Dialoghi di Gregorio Magno. Da sinistra a destra troviamo: Benedetto abbandona Roma e gli studi (vedendo che molti compagni cedevano al vizio); Benedetto ricompone miracolosamente il setaccio spezzato (che la nutrice aveva rotto nel campo di grano); Benedetto riceve l’abito eremitico dal monaco Romano dopo essersi ritirato sul monte Subiaco; Il diavolo spezza la campanella mentre il monaco Romano cala il cibo a Benedetto; Benedetto istruisce i contadini e i pastori in visita; Benedetto supera la tentazione della lussuria; Benedetto recupera miracolosamente una roncola caduta nel lago; Mauro salva Placido camminando sulle acque; Benedetto abbandona Subiaco per Montecassino; Benedetto smaschera il falso Totila; Benedetto accoglie re Totila.
Sulla parete di fondo si apre un piccolo ambiente che conserva un lavabo ornato da testine di Cherubini e maioliche invetriate, sopra il quale si conserva un affresco raffigurante un tema iconografico tradizionale per un luogo come questo: L’incontro tra Gesù e la Samaritana al pozzo di Giacobbe. Di dubbia attribuzione, l’opera si riallaccia allo stile e ai modi dell’affresco presente sopra il lavabo della Sala del Forno – Mosè salvato sul Nilo – e pertanto è stata attribuita a Francesco Giugno.
Dalla sacrestia si accede alla zona absidale della chiesa. Al centro dell’abside spicca la pala con la Madonna, il Bambino e i santi Nicola e Benedetto attribuito al milanese Giovanni Antonio Cucchi (1690 – 1771); ai lati, si notano due interventi del Sassi con medaglioni a monocromo contenenti due miracoli di San Nicola – San Nicola risuscita tre fratelli; San Nicola libera un giovane fatto schiavo. Sulle pareti laterali sono disposte due scene con la Vestizione religiosa di san Bernardo Tolomei e la sua Morte; sulla volta absidale alcuni monaci contemplano San Benedetto innalzato in gloria dagli angeli.
L’abside si completa con il coro intagliato da Cristoforo Rocchi a partire dal 1480, anche se la posizione attuale non corrisponde a quella originaria. Il coro olivetano occupava probabilmente la zona presbiteriale della precedente chiesa cluniacense, più spostato in avanti rispetto a dove si trova oggi, ai lati dell’altare maggiore su due file parallele. Il coro è disposto su due ordini: quello superiore è formato da ventisette stalli; quello inferiore da sedici sedili. Le tarsie dei dossali sono inserite entro due cornici e sormontate da semivolte a scacchiera e terminate da cimase con dentelli intarsiate e divise da targhette con stemmi olivetani. I disegni delle tarsie presentano una semplice eleganza e una lavorazione “certosina”, specialmente nella ricerca cromatica.
Spiccano le composizioni con prospettive di palazzi negli schienali di vario tipo: alcune più elaborate a livello architettonico, altre accompagnate da nature morte con ampolle o libri. In una di queste rappresentazioni – nella quarta tarsia sulla parete di fondo – lungo i bordi di due libri si leggono la firma e la qualifica di intagliatore dell’artista: magister / cristophor. Le nature morte presenti nelle tarsie del coro hanno fatto pensare che queste potessero avere una funzione precisa; in effetti, in alcuni manoscritti si invitano i monaci ad evitare l’invidia e a coltivare l’amicizia; la clessidra, le candele e il candeliere spento invitano a riflettere sulla fugacità del tempo; la penna e il calamaio, invece, fanno riflettere sull’opportunità di migliorare il tempo che passa con l’amore e con lo studio; i libri e il campanello spronano ad essere pronti alla preghiera liturgica; il melograno è simbolo della vita comunitaria; le mele e le pere sono simboli della Vergine e della ricerca di salvezza nella quotidianità.
Per il coro venne realizzato anche un pregiato Leggio intarsiato da Fra Raffaele da Brescia, converso olivetano, intorno al 1530-1531, e per il quale lo stesso Girolamo Romanino fornì dei cartoni preparatori.
Il Leggio rimase al centro del coro fino al 1797 e poi, in seguito alla soppressione napoleonica, venne acquistato dal Comune di Brescia. Oggi è conservato presso la Pinacoteca Tosio Martinengo.

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8. Chiesa

La chiesa così come si presenta oggi è frutto di interventi che hanno coinvolto questo spazio a partire dall’arrivo dei monaci olivetani nel XV secolo e, purtroppo, nulla è rimasto della chiesa medievale, anche se si può ipotizzare che questa avesse un impianto semplice ad aula unica, con una sola abside emiciclica e munita di cappelle laterali sul lato settentrionale dove, probabilmente, si trovava anche il Battistero. Queste erano collegate all’aula grazie ad una navatella che attraversava tutto il corpo della chiesa.
Con l’arrivo degli olivetani, nella seconda metà del ‘400 si procedette alla ristrutturazione degli ambienti monastici e, in particolare, della chiesa che, sulla base della struttura romanica, mantenne la stessa ampiezza ma venne irrobustita e innalzata per mezzo della realizzazione di grandi archi ogivali. Le modifiche principali si concentrarono nella zona absidale, dove venne abbattuta la struttura emiciclica romanica e realizzata un’abside più spaziosa collegata al campanile, prima indipendente, e alle stanze della sacrestia. Verosimilmente, la progettazione architettonica della nuova abbazia olivetana fu affidata a Cristoforo Rocchi.
Pur mantenendo questo impianto originario della prima fase olivetana, si coglie immediatamente la profusione di rifiniture e decorazioni barocche, sia in alcuni elementi architettonici sia negli affreschi che si estendono su gran parte della superficie. Per esempio, l’altare maggiore venne sostituito nel 1688 dal maestro Paolo da Puegnago.
A partire dal 1725 furono chiamati ad abbellire la chiesa Giacomo Lechi, Giuseppe Castellini da Monza, grandi quadraturisti, e Giovanni Battista Sassi di Milano, per la realizzazione delle figure.
La zona del presbiterio presenta sulla parete al di sopra della cantoria, contrapposta all’organo cinquecentesco, un affresco con Santa Cecilia intenta a suonare l’organo in mezzo alle sue compagne realizzato dal cremasco Gian Giacomo Barbelli intorno al 1645, mentre nella volta del presbiterio il Sassi dipinse San Nicola in contemplazione di Gesù e di Maria mentre è liberato dai ceppi da un angelo, un episodio che ricorda la prigionia sopportata dal santo dal tempo delle persecuzioni dell’imperatore Diocleziano fino all’Editto di Milano emanato da Costantino.
Anche la serie di cappelle a sinistra fu interessata da queste trasformazioni secondo il gusto settecentesco.

  • La zona absidale della navata minore, caratterizzata da architetture e tendaggi dipinti, ospita un’urna ottagonale contornata da un affresco di foglie di palma disposte a corona e circondata da angeli adagiati sulle nuvole. All’interno dell’urna è collocata la culla con Maria Bambina, celeste patrona particolarmente cara agli olivetani, ma in origine questo spazio era stato predisposto per contenere le reliquie dei Martiri venerati nel monastero. L’altare è probabilmente un’opera della bottega di Paolo da Puegnago.
  • La sesta cappella è sprovvista di altare e di titolo dedicatorio; le sue superfici sono decorate con finte architetture, opera di Lechi e Castellini.
  • La quinta cappella è dedicata a Santa Francesca Romana, fondatrice delle Oblate della congregazione benedettina di Monte Oliveto, rappresentata nella meravigliosa pala d’altare eseguita dal Sassi. Santa Francesca è inginocchiata con accanto un Angelo che le indica, sul libro aperto che lei tiene tra le mani, il versetto 23 del Salmo 72 – “Tenuisti manum dexteram meam, et in voluntate tua deduxisti me, et cum gloria suscepisti me” – che costituisce il momento decisivo della visione che la portò alla fondazione delle Oblate olivetane; in basso a sinistra, un angioletto sorregge il libro della Regola. In cielo, San Benedetto in Gloria circondato da angeli. Sulla parete sinistra è datata al 1721 una raffigurazione con San Benedetto che risuscita un morto; sulla parete di destra, invece, è rappresentato il Martirio di San Placido e di Santa Flavia. Sulla volta della campata antistante sono affrescati tre angeli in volo, uno dei quali reca un ramo di vite con grappoli maturi, a ricordare l’Estasi nella vigna, durante la quale la santa fece maturare fuori stagione molti grappoli su un tralcio; un altro porta in spalla un covone di spighe per richiamare il miracolo del grano aumentato nel granaio per sfamare i poveri; il terzo angelo ha un cesto pieno di pani, memoria di un altro miracolo di Francesca, ovvero la moltiplicazione dei pani per aiutare le consorelle indigenti.
  • La quarta cappella è dedicata a san Bernardo Tolomei, fondatore della congregazione di Monte Oliveto. Qui Giovan Battista Sassi affrescò alcuni episodi della vita del Santo nelle pareti laterali: a destra, san Bernardo Tolomei risuscita un operaio caduto dall’impalcatura durante la costruzione di Monte Oliveto; a sinistra, il Santo che dà in Siena sepoltura ai morti di peste del 1348. Nella volta della campata antistante, si trovano raffigurati altri episodi tratti dalla vita del Tolomei, a monocromo: Il Diavolo percuote San Bernardo; Un giovane tenta di avvelenare San Bernardo offrendogli del cibo; Gesù dalla croce parla a San Bernardo; Visione di San Bernardo con gli Olivetani che salgono al cielo per mezzo di una scala d’argento. Di incerta attribuzione è la pala d’altare che raffigura il Santo inginocchiato e in contemplazione della Madonna con il Bambino; occupano il primo piano la mitra e il pastorale appoggiati su una Bibbia aperta, appoggiata a sua volta su un libro sul quale si legge in modo chiaro: regula s.ti benedicti.
    Domina la volta la figura del Padre Eterno in Gloria.
  • Le fonti testimoniano che il vasto programma di trasformazione delle cappelle prese le mosse proprio dalla terza cappella, quella dedicata al Rosario. La decorazione pittorica riporta una serie di temi iconografici riconducibili alla figura di Maria. Nella volta, un volo d’angeli reca corone di rose. Sulle pareti sono riportati alcuni episodi della vita di Maria: sulla sinistra, L’Annunciazione; a destra, La Visitazione. Nella volta della campata antistante, invece, è rappresentata ancora una gloria di angeli recanti rami fioriti di rose, simbolo della Madonna.
  • La seconda cappella è dedicata al culto dei Santi Pietro e Paolo e ospita uno dei principali gioielli pittorici del complesso monastico: la tela raffigurante Gesù in gloria che consegna le chiavi a san Pietro e il libro della dottrina a San Paolo, dipinta da Alessandro Bonvicino – detto il Moretto – entro la metà del 1500. L’opera, di grande impatto, testimonia il fondamento divino della Chiesa che si basa sul mandato di Cristo agli Apostoli, tra i quali Pietro e Paolo sono le colonne, un tema molto caro nell’epoca in cui si era ormai diffusa ovunque la Riforma luterana.
    Le decorazioni settecentesche sono opera del Sassi: nella volta è affrescata l’Apparizione dello Spirito Santo, segno della forza della predicazione dei due Apostoli; sulla parete di sinistra, l’episodio Quo vadis Domine? tratto dagli dall’apocrifo neotestamentario Atti di Pietro; sulla parete di destra è raffigurata la Predicazione di Paolo ad Atene, dagli Atti degli Apostoli. Le scene minori affrescate a monocromo nella volta della campata antistante presentano il consueto vivace stile narrativo del Sassi e raffigurano il Pentimento di Pietro al canto del gallo; Pietro liberato dall’angelo; Saulo precipitato a terra sulla via di Damasco; Anania apre gli occhi a Saulo.
  • La prima cappella, l’ultima prima di uscire dall’ingresso principale, è dedicata al Santissimo Sacramento. La volta è occupata dalla figura di Mosè attorniato dagli Israeliti condotti alla salvezza, un rimando al “nuovo Mosè” nella pala d’altare del Sassi con la Santissima Trinità e il Trionfo della Croce. La parte superiore della tela è occupata dalla Trinità dove si riconoscono precisamente le figure di Cristo, di Dio Padre e della colomba, simbolo dello Spirito Santo; nella parte inferiore del dipinto, irrompono sulla scena alcuni angioletti che trasportano la Croce, accolta a braccia aperte dallo stesso Gesù.
    Sulle pareti laterali sono raffigurate una scena di battesimo e una di martirio, segni della salvezza che deriva dalla croce e raggiungibili mediante il Battesimo di acqua e il Battesimo di sangue. Nella volta della campata antistante, infine, è presente un affresco con Quattro angeli in volo che reggono i simboli della Passione, legati alla Crocifissione.

Sulla parete libera dalla presenza delle cappelle laterali, si può ammirare la grande tela del Cossali (1563-1630) con Le Nozze di Cana (1608) che un tempo occupava la parete di fondo del salone del Refettorio e collocata qui dopo la soppressione di fine ‘700. Si tratta di una tela matura del pittore orceano, nella quale dimostra sia un’ottima padronanza della prospettiva sia una buona esecuzione delle numerose figure che si affollano nello spazio, memore forse delle più celebri tele con Cene evangeliche di Paolo Veronese. Da quelle il Cossali riprese sicuramente la moltitudine di personaggi catturati in atteggiamenti diversi: i curiosi affacciati sulla balconata; i commensali intenti a parlare tra loro; gli inservienti che, in primo piano, versano l’acqua nelle giare prima che si avveri il miracolo di Gesù. Non manca il classico giovinetto, di memoria giottesca, vestito di bianco, colore dell’innocenza, che si arrampica sulla colonna per vedere meglio.
Prima di lasciare la chiesa, merita uno sguardo anche la bellissima volta, frutto della collaborazione tra Lechi, Castellini e Sassi con L’Apoteosi dei santi Nicola, Benedetto e Scolastica e la Trinità con una gloria di Angeli. Lungo le pareti è sempre il Sassi a dipingere alcune monumentali Figure allegoriche di Virtù (Fortezza, Temperanza, Ubbidienza, Carità, Fede, Speranza). Nella controfacciata Scienza e Sapienza accanto a San Carlo Borromeo in preghiera davanti al Crocifisso.  

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